Cosa pensano gli altri di AIHC?
Qui trovate articoli, news, video e approfondimenti che citano l'Associazione Italiana Health Coaching.
Sinergia tra medicina ed health coaching: un ponte al servizio del benessere

Pubblicato su AboutPharma il 26 Novembre 2024
Giovanni Muratore
L’health coaching può migliorare l’efficacia delle cure e favorire l’adozione di stili di vita salutari e la prevenzione di patologie croniche. Attraverso il supporto personalizzato ai pazienti nel raggiungimento dei propri obiettivi di salute e benessere, questa metodologia – relativamente nuova in Italia, ma da decenni presente negli Usa – si integra nei percorsi clinici tradizionali e costruisce un ponte tra le esigenze del paziente e le possibilità della medicina moderna.
Il dialogo tra le discipline
Si è svolto Milano lo scorso 8 novembre un convegno sulla “Gestione multidisciplinare del paziente con MICI in corso di malattie reumatologiche”. Il contributo dell’approccio olistico e multidisciplinare offerto dall’Associazione italiana health coaching (Aihc), che ha organizzato il meeting insieme a Formedica Scientific Learning, si è concretizzato, per la prima volta in Italia, nella possibilità di conseguire 9 crediti ECM per gli operatori sanitari. Spiega Rosario Gagliardi, presidente di Formedica, docente al Master di management sanitario dell’università La Sapienza e presidente del Comitato scientifico Aihc: “Per la prima volta in un convegno squisitamente medico sono stati inseriti argomenti di health coaching e non in modo casuale. Con l’innovazione in medicina si rischia di ridurre lo spazio del vissuto del paziente e il medico è sempre più concentrato su dati, numeri e risultati che emergono dalla straordinaria tecnologia di cui dispone. Qui s’inserisce il coaching della salute, focalizzandosi sul paziente, per tirarne fuori più consapevolezza, responsabilità e autonomia in un percorso di cura. Passaggi indispensabili nel cammino verso la guarigione”.
Sviluppare consapevolezza nella malattia e nella relazione terapeutica
“Il paziente – spiega Gagliardi – ha bisogno di cambiare alcune abitudini e spesso non ci riesce da solo. Pensiamo a chi segue una dieta dimagrante: il successo non dipende solo dalla competenza del nutrizionista o del dietologo ma dalla consapevolezza, volontà e responsabilità del soggetto che deve adottare uno stile di vita, un modo di mangiare e un modo di pensare differenti. Chi è più aderente ricorre meno al medico e accede meno in ospedale, con risparmi importanti anche per il Servizio sanitario nazionale. In sostanza, il fine di un health coach non è eliminare il dolore o eliminare la malattia, ma fare in modo che questi possano condizionare il meno possibile la vita del paziente. Insomma, la patologia vissuta come un’esperienza, come una sfida, cambia le prospettive rispetto alla sua stessa gestione”.
Un cambiamento culturale
Aggiunge Francesco di Coste, presidente di Aihc e Master Certified Coach ICF: “Al meeting è stata presentata una serie di crescenti evidenze scientifiche relative al percorso di cura e al trattamento delle malattie croniche che dimostrano come le prassi di health coaching possano produrre miglioramenti della cura e dell’aderenza alle terapie prescritte dai clinici, introducendo sensibili novità a livello cognitivo e comportamentale. L’health coach non si concentra sul passato, bensì si sofferma su ciò che il paziente può ancora fare, sia a livello fisico che mentale. Il cambio di prospettiva consente alla persona d’iniziare a lavorare su di sé, al fine di creare gradualmente una propria progettualità, acquisendo maggior responsabilità, autonomia e consapevolezza. In tal modo il paziente colma il vuoto di ascolto e presenza cui probabilmente la medicina, con la sua parcellizzazione scientifica e con il suo ricorso alla tecnologia e ai farmaci non riesce del tutto a rispondere. Mi riferisco alla percezione della malattia, che per il paziente è basata su alcuni elementi, quali l’inquietudine, la paura, l’alterazione o l’interruzione della trama esistenziale tramite le modificazioni del corpo. Per il medico, invece, la percezione della malattia è giustamente focalizzata sull’alterazione di equilibri fisico-chimici, su alterazioni fisiopatologiche, sulla visione dei dati tramite indagini ecografiche e radiografiche etc. In questo contesto forse risiede il cambiamento culturale, che ha promosso l’avanzamento del coaching verso una dimensione più medico-scientifica, più integrata, di affiancamento al professionista sanitario”.
Il modello proposto
Aihc ha messo a punto di un modello nuovo di competenze degli health coach basato su rigorosi protocolli nell’esercizio della professione. “Gli operatori e gli specialisti di Aihc – prosegue di Coste – sono molto attivi nel cosiddetto Wellness organizzativo, che riguarda un po’ tutte le organizzazioni e le aziende, comprese quelle sanitarie: cerchiamo di utilizzare il patrimonio tecnico dell’associazione per ampliare il benessere di chi lavora nei contesti pubblici e privati”.
L’esperienza in clinica
Venendo al tema del convegno, l’aderenza al trattamento nelle malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) ha un peso notevole e l’efficacia dei farmaci è legata al fatto che il paziente comprenda la necessità di assumerli esattamente così come prescritti e per tutto il tempo necessario. Lo chiarisce bene Antonella Romanini, dirigente medico dell’Azienda ospedaliera universitaria Pisana, Oncologia1. “Le terapie orali sono lasciate nelle mani del paziente che si considera aderente al trattamento se assume l’80% del farmaco prescritto. In realtà sappiamo che nei trattamenti cronici l’assunzione di un solo farmaco si aggira intorno al 50% e quindi è molto bassa. Se poi si aggiungono più farmaci, cosa che avviene soprattutto in persone di età avanzata, la percentuale di aderenza scende fino al 20%, con una variabilità nel caso delle MICI, compresa tra il 7% e il 74%”.
Come misurare l’aderenza al trattamento in modo oggettivo?
Prosegue Romanini: “Si fa calcolando la concentrazione del farmaco nel sangue, però è un metodo molto costoso e richiede un’organizzazione complessa. Più spesso si ricorre a metodi indiretti, come l’uso di scatoline con la data oppure distributori elettronici, che possono registrare quando il farmaco viene prelevato, ma non esattamente quando viene assunto. Certezze non ve ne sono. Soprattutto nei pazienti affetti da depressione che abbandonano la terapia nel 50% dei casi dopo tre mesi e nel 70% dei casi dopo sei. Il problema esiste ed è grave, ecco perché includere un intervento di health coaching potrebbe migliorare sia la comunicazione con il medico sia l’empowerment del paziente nei confronti della propria malattia”.

L’health coaching si fa strada per migliorare aderenza alle cure e benessere dei pazienti

Pubblicato su AboutPharma il 21 Novembre 2024
Viola Rita
Imparare a gestire meglio i sintomi di una malattia, migliorare lo stile di vita e l’aderenza alle terapie, aumentare il benessere fisico e mentale. Sono solo alcuni degli obiettivi dell’health coaching (anche chiamato talvolta medical coaching), offerto da associazioni di pazienti, dalle aziende farmaceutiche o dalle strutture ospedaliere. In Italia, in rete si comincia a rintracciare notizia di qualche progetto di health coaching rivolto a persone colpite da tumori, malattie rare o croniche e ai loro caregiver. Ma questi interventi sono effettivamente efficaci? Secondo uno studio condotto dal Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Usa, intitolato “The effectiveness of health coaching”, la risposta è positiva. L’indagine, che è una revisione delle ricerche sul tema, ha incluso 41 trial randomizzati controllati con pazienti con diabete 2, malattie cardiache o renali, frequenti tra i veterani americani. I partecipanti che ricevevano un intervento di health coaching riportavano miglioramenti, in alcuni casi statisticamente significativi, nello stile di vita e in alcuni parametri clinici.
I possibili vantaggi
Avere un paziente più controllato e in salute può peraltro ridurre il carico di lavoro del medico e i costi per il sistema sanitario. A suggerirlo è anche un’altra ricerca statunitense, condotta dalla University of North Dakota School of Medicine and Health Science, e pubblicata sulla rivista Medical Care. Il lavoro indica che i pazienti più consapevoli della loro condizione tendono a rivolgersi meno ai servizi oppure ad utilizzarli in maniera più idonea, potenzialmente riducendo accessi inutili al pronto soccorso. L’ampia quantità di ricerche USA sull’health coaching segnala una maggiore attenzione al tema in questo paese. È proprio qui, del resto, che è nato e si è affermato il coaching. Oggi, inizia ad affacciarsi e ad essere riconosciuto anche in Europa e in Italia.
Cos’è l’health coaching
Nei database medici vari studi parlano dell’health coaching, ma più raramente ne viene fornita una definizione chiara e completa. Nella seconda metà del secolo scorso negli Stati Uniti nasce la figura del coach, impegnato nel migliorare la prestazione sportiva. Dagli anni ’90 questa figura compare anche in azienda, in ambito lavorativo. Nel frattempo, già a partire dagli anni ’50 si delinea un nuovo concetto di benessere, che prende vita dalla definizione del 1948 nella Costituzione dell’Organizzazione mondiale della Sanità (“la salute una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale”).
In questo contesto, si inizia a discutere di come poter migliorare la propria salute adottando opportuni cambiamenti nello stile di vita. E già negli anni ‘90 si sviluppa la prima forma di coaching sanitario. Negli anni, l’health coaching si è differenziato, applicandosi a diverse situazioni mediche. Attualmente, la maggior parte delle ricerche definisce l’health coaching come un intervento totalmente o parzialmente incentrato sulla persona, orientato ad un preciso obiettivo, spesso individuato dal paziente stesso all’inizio del programma. Il percorso, che viene costruito insieme al coach, ha come scopo la scoperta e la valorizzazione delle possibilità e delle risorse presenti. Si basa inoltre su un apprendimento attivo, in cui il coach punta ad aumentare la motivazione, la fiducia e il senso di autodeterminazione. Inoltre, l’intervento deve essere svolto sempre da coach formati e che hanno svolto percorsi accreditati. “Anche a fronte di importanti limitazioni imposte dalla malattia – spiega Francesco di Coste, presidente dell’Associazione italiana health coaching (Aihc) e Master Certified Coach ICF – non ci si concentra su ciò che si è perso ma si lavora su ciò che si può ancora fare, sia a livello fisico sia in termini di atteggiamento mentale. La persona identifica per se stessa una ‘pensabilità positiva’ attraverso cui riesce a costruire una propria progettualità”. Non si fornisce, negli interventi di health coaching, un supporto psicoterapeutico. “L’health coaching è concentrato sul presente – chiarisce l’esperto – non lavora diffusamente sulle cause del problema, piuttosto sul come affrontare le difficoltà che ne derivano. Inoltre, non è un trattamento terapeutico e il coach non è un operatore sanitario”.
I metodi utilizzati sono vari, fra cui un insieme di tecniche dette Behavior Change Techniques, (BCTs). La singola tecnica BCT è definita come la più piccola parte osservabile e replicabile dell’intervento adottato, costruito per modificare o reindirizzare i processi che regolano un comportamento. “Si possono includere esercizi di consapevolezza sensoriale – aggiunge di Coste – tecniche di respirazione, pratiche introspettive basate su particolari approcci di mindfulness, uso di ruoli o della rappresentazione teatrale per favorire maggiore consapevolezza, yoga nidra, concentrazione (focusing) emozionale ed altri esercizi”.
Un esempio concreto
Gli esercizi possono applicarsi in vari ambiti. “Una partecipante ad un nostro progetto – racconta di Coste – non riusciva a compiere alcuni movimenti con la mano destra a causa di una patologia cronica”. In particolare, quando le veniva chiesto di svolgere un certo movimento con una prescrizione classica come ‘compi questo gesto e vedrai che ce la fai’, la donna non riusciva a raggiungere l’obiettivo, con conseguente frustrazione. Ma è stato possibile cambiare la situazione. “Con specifiche domande previste dal coaching – prosegue di Coste – veniva invitata a considerare tutto il repertorio di gesti possibili, anche alternativi, per arrivare a compiere il movimento richiesto. Il tutto concentrandosi sulle risorse interne ed esterne, inclusi il supporto e la guida forniti dagli altri partecipanti (l’ambiente esterno)”. Per ogni passaggio compiuto correttamente verso l’obiettivo, inoltre, veniva fornito un riscontro positivo. “Dopo sette tentativi è stata in grado di compiere il movimento completo”, conclude di Coste.
Uno strumento utile anche per il medico
“Dopo una diagnosi di una patologia importante, come quella oncologica, il paziente è confuso e può avere timore nel porre domande su come gestire la sua nuova quotidianità”, sottolinea Antonella Romanini, oncologa presso il reparto di Oncologia medica dell’Azienda ospedaliero Universitaria Pisana, membro del Comitato scientifico dell’Associazione Aihc. “A sua volta, il medico può non riuscire a intercettare queste necessità, per cui si crea un vuoto comunicativo anche rilevante”. In questi casi, come conferma Francesco di Coste, l’health coaching può intervenire efficacemente per fornire risposte anche non convenzionali. Un esempio? Per una persona disabile che non riesce più a mangiare con le posate può essere preferibile consumare un certo cibo con le mani, in maniera autonoma, anziché imboccarla. O ancora, lasciarle più tempo per alzarsi e vestirsi, anziché aiutarla per velocizzare le operazioni. L’oncologa si impegna per proporre l’approccio dell’health coaching anche nel suo lavoro (es. per comunicare cattive notizie e per orientare i pazienti verso la soluzione individuale più adatta). Una situazione pratica: “Riuscire a spiegare, con delicatezza, al malato o ai suoi familiari, perché la strada migliore nel loro caso è quella dell’accesso ad un hospice, opzione che peraltro potrebbe ridurre i tempi di ricovero in ospedale, liberando posti per altri pazienti che ne hanno necessità”.

Health coaching a supporto della medical education e del coinvolgimento del paziente

Pubblicato su Medicina Integrata Giugno 2017
Caterina Lucchini
L’health coach è una figura sempre più importante nel mondo sanitario. Il suo ruolo? Aiutare il paziente a gestire in modo attivo la propria condizione di salute. Ne abbiamo parlato con Francesco di Coste
Viviamo una fase storica della sanità pubblica nella quale è ormai ineludibile il coinvolgimento e la partecipazione dei consumatori di prestazioni sanitarie ai processi di diagnosi e cura. Per poter codifi- care un processo di engagement e allenarne i protagonisti occorre formare delle figure capaci di esercitare un’opportuna call to action di tutti gli attori del sistema sanitario, in primis pazienti, caregiver, infermieri e medici. Francesco di Coste, presidente dell’Associazione Italiana Health Coaching® (Aihc), ci aiuta a comprendere la figura dell’health coach e il suo ruolo attivo di integrazione con le figure professionali che abitano il mondo sanitario e con i pazienti per una sanità e una gestione della malattia sempre più attiva.
Cos’è l’health coaching?
L’health coaching è una pratica professionale che emana dal coaching, con il quale condivide l’approccio etico, i valori di base e alcune competenze professionali. Rappresen- ta pertanto una pratica socialmente utile che, accogliendo vari approcci disciplinari coniugati secondo la metodologia del coaching, ha un impatto positivo e diretto sul benessere dei pazienti e sul coinvolgimento degli attori del sistema sanitario. Tutte le attività che un health coach progetta, pianifica e rilascia sono in linea di coerenza con i principi guida del coaching e con le buo- ne prassi volte a promuovere la salute delle persone e a tutelarne il loro stato di benes- sere psico-fisico. Tra i principi cardine che ci si è dati per esercitare l’health coaching vi sono quello di ispirarsi al codice etico della Federazione Internazionale Coaching (ICF), di aderire allo statuto e al regolamento dell’Aihc e di comunicare con chiarezza alle persone e ai gruppi che si rivolgono alla nostra atten- zione, quali siano le differenze tra coaching, psicoterapia e altre professioni di aiuto. Infine l’health coaching si ispira alle indicazioni del- la Commissione europea sul fronte della pre- venzione e della centralità del paziente nella gestione attiva della sua condizione di salute. Per tale ragione un health coach è tenuto a suggerire alla persona, quando necessario, di rivolgersi a un altro professionista del supporto, ogni volta che il paziente/cliente sia interessato a farsi seguire su aspetti diagnostico- terapeutici che non sono di pertinenza della figura dell’health coach.
A chi è rivolto?
L’health coaching coinvolge principalmente le persone che desiderano ampliare il proprio spazio di benessere malgrado la malattia, o che siano in presenza di una condizione delicata dal punto di vista socio-assistenziale. La pratica e il setting dell’health coaching investono anche altri portatori di interesse come, in primo luogo, i familiari o caregiver informali. Vi è poi una particolare declinazione dell’health coaching che coinvolge i medici e gli infermieri, attraverso interventi di medical education mirati a rendere gli operatori sani- tari protagonisti capaci di avviare il processo di engagement dei pazienti, cioè l’insieme di quelle attività che rendano i pazienti attori del loro percorso di diagnosi e cura.
Cos’è l’engagement nell’ambito assistenziale delle cronicità?
L’engagement, secondo la Consensus Conference italiana sul patient engagement, è un concetto sistemico che identifica le possibili modalità di relazione che la persona con una domanda di assistenza e/o cura può intrattenere con la sua condizione e con i professionisti sanitari, con il team di cura e con il con- testo organizzativo. Questo tipo di approccio può contribuire a dare risposte significative alle sfide economiche derivanti dall’aumento dei costi sanitari, e rinforzare il principio costituzionale dell’universalità del nostro Sistema Sanitario Nazionale, che vuole conti- nuare a garantire accesso alle cure per tutti i pazienti. Ci sono infatti evidenze empiriche che dimostrano il fatto che le persone poco coinvolte nel processo di cura spendono – non solo sulle loro tasche – due volte di più di quelle coinvolte. In sintesi, a fronte di una letteratura sul tema dell’engagement ancora frammentata, definire il concetto di “patient engagement” e le sue implicazioni a vari livelli diviene cruciale per passare da una dichiarazione di intenti a una concreta strategia di azioni volte a promuoverlo. Occorrono dunque progetti di intervento capaci di corroborare le evidenze empiriche ed evidenziare le prossime linee di sviluppo con buone ricadute applicative per tutti i professionisti che vogliono ripensare ai propri atteggiamenti e competenze professionali in presenza di un paziente sempre più attivo e partecipe rispetto alla gestione della propria salute.
Facciamo un passo indietro. Qual è l’attuale fotografia della relazione medico-paziente?
Al di là delle problematiche che affliggono oggi la sanità italiana (liste di attesa, assistenza domiciliare programmata, ricoveri ospedalieri), il rapporto medico paziente nella storia non è mai stato facile. Prova ne sia che le visite mediche, dove in primis si costruisce il rapporto fiduciario fra chi somministra e chi riceve la cura, siano spesso frettolose e quasi sempre guidate da quel sottile contratto non scritto, che recita: “Io (medico) guido, tu (paziente) esegui”. D’altro canto sono davvero poche le università che hanno compreso co- me l’empatia sia una componente essenziale in tale delicato rapporto. Secondo un’indagine condotta da Renato Scatigna del comitato scientifico Aihc, solo 15 su 100 neo-laureati intervistati ha dichiarato di avere memoria di alcune materie di studio che insegnassero a relazionarsi con i pazienti, in particolare in presenza di patologie croniche od oncologi- che. Per imparare a relazionarsi con i propri assistiti non è tuttavia necessario possedere doti innate. Lo sta dimostrando l’esperienza di Oncotalk (“parlare di oncologia”), un me- todo formativo importato dagli Stati Uniti e adattato alla realtà italiana, che negli ultimi due anni ha già permesso di formare alcune decine di medici a gestire la comunicazione con i pazienti e i familiari.
Ormai la tendenza prevalente – come ha più volte precisato Luigi Grassi, docente di Clinica Psichiatrica presso l’università di Ferrara – è quella di non usare più né il modello comunicativo anglosassone del cosiddetto “accanimento informativo”, consistente nel dire tutto e a ogni costo, né l’estremo opposto della “congiura del silenzio”, cioè di due livelli di informazione, uno ampio e veritiero ai familiari, l’altro sottaciuto e illusorio, rivolto ai pazienti. Questa seconda modalità, in via di riduzione, si era radicata soprattutto nei Paesi mediterranei e di cultura cattolica. Il giusto mezzo appare quello di una comunicazione che tenga conto delle necessità del paziente, delle sue emozioni e del contesto in cui vive. Per fare ciò la strategia vincente è quella di entrare nella sfera dell’empatia, cioè di calarsi nello stato d’animo del paziente, pre- stando attenzione ai suoi pensieri e alle sue emozioni. Per fare questo occorre non tanto del tempo, quanto saperlo gestire, specie se si è alla prima visita. Il luogo comune più errato è infatti proprio quello che attribuisce alla variabile temporale la bontà di una visita medica.
È complesso e articolato definire il “giusto” tempo che dovrebbe essere dedicato a un pazien- te, così come è complicato fare una statistica al riguardo, perché ogni condizione è a sé e sono molti gli aspetti che variano nel corso di una visita medica. Posto che dovrebbe quindi essere garantito a ogni paziente di usufruire del tempo necessario affinché la visita risulti accurata, c’è un altro elemento che fa di una visita medica, per quanto attenta e scrupolosa, una buona visita medica: la ricerca dell’empatia con il paziente. Condizione predisponente al raggiungimento dell’elemento essenziale del rapporto di fiducia. In poche parole, la qualità del processo, che è squisitamente umana e che non può essere sostituita da nessun tipo di applicazione tecnologica. Il paziente, prima di recarsi in ambulatorio, ha già messo in conto i costi di accesso (liste di attesa, file in ambulatorio, piani terapeutici) da pagare. Nella sua personale equazione del valore questi so- no elementi che vanno al denominatore, che abbassano cioè il valore complessivo. Quindi, a contatto con il medico, il paziente cercherà quegli elementi, posti al numeratore, che renderanno invece l’equazione finale a risultato positivo.
Quali sono questi elementi? I risultati e la qualità del processo.
In che misura gli interventi di health coaching possono migliorare la qualità del processo di cura?
L’azione formativa di health coaching può agire a più livelli portando a migliorare gli elementi che tradizionalmente ciascuno ricer- ca in una relazione professionale di supporto basata sulla fiducia:
• empatia socio-professionale
• efficacia relazionale
• efficienza operativa
• autorevolezza etica
• stile di leadership adeguato alla situazione
del paziente
• capacità di comunicazione interpersonale
• creazione del clima di fiducia
• intelligenza emotiva
In che modo l’health coaching impatta sulla soddisfazione del paziente?
Nel mondo anglosassone, ricco di studi e statistica in tal senso, alcuni anni fa Robbins et al. hanno studiato proprio la soddisfazione del paziente nella pratica della medicina di famiglia e hanno visto che il medico coinvolto nell’educazione sanitaria e sugli effetti del trattamento ha avuto un impatto importante sulla soddisfazione del paziente
(1). Ancora, in uno studio sugli internisti, Laine et al. hanno riscontrato come i pazienti abbiano classifica- to l’importanza di fornire le informazioni relative alla propria salute seconda solo all’abilità clinica del medico
(2). Nel 1986 Kaplan et al. hanno studiato internisti e medici di famiglia come parte del Medical Outcomes Study. Essi hanno trovato che i pazienti dei medici con “uno stile di decisionale - partecipativo” hanno avuto migliori risultati in termini di salute degli altri pazienti, ed erano più soddisfatti. I ricercatori hanno verificato che i medici con uno stile decisionale - partecipativo avevano il 30% in meno di probabilità che i pazienti abbandonassero la loro terapia. E l’adesione alla terapia è un aspetto fondamentale, che nasce dal fatto che il paziente crede e ha fiducia in quello che il medico gli dice e gli prescrive. In più, i ricercatori hanno osservato che i medici con un volume di pratica al di sotto delle 70 visite alla settimana avevano la tendenza ad avere uno stile decisionale più partecipativo. In questo studio Kaplan et al. non hanno, tuttavia, riportato la durata delle visite. D’altro canto altri studi (5) hanno dimostrato che, per le visite per malattie croniche tra i 16 ei 30 minuti di lunghezza, non è il tempo effettivo trascorso con il medico che influenza il risultato, quanto piuttosto ciò che accade in quel periodo e la percezione qualitativa complessiva del paziente.
Recentemente Luciana Romanazzo, del comitato direttivo di Aihc, ha presentato al 1° Meeting Lab del 2017 un set di esercizi di yoga della risata incondizionata, basati su evidenze scientifiche davvero interessanti (8 e 9). L’health coaching impatta anche sulla soddisfazione del medico? Il livello di soddisfazione dei medici pare es- sere collegato alla loro percezione della quantità di tempo dedicata a fare il loro lavoro. Vent’anni fa, Mawardi (6) scoprì che una del- le fonti primarie di soddisfazione del medico era proprio il rapporto con i pazienti. La fonte primaria di insoddisfazione era la “pressione esercitata dal tempo.” Specificamente citati erano le continue richieste su chiamata, i carichi di lavoro e il troppo poco tempo libero personale. Quello che forse oggi in Italia la- mentano molti medici, non solo di medicina generale ma anche ospedalieri. Rispetto al tema della percezione è importante ricordare che si tratta di un processo mediante il quale traiamo informazioni sul mondo nel quale viviamo. Esso avviene in maniera selettiva, costruttiva e interpretativa: la nostra mente seleziona tra le varie sensazioni quelle che – in una data situazione – sono per noi importanti. Se siamo poco organizzati, se ci lasciamo trascinare dagli eventi, se amiamo le libere divagazioni, e trascuriamo di guardare l’agenda e le scadenze…allora, probabilmente, è facile che il tempo eserciti su di noi pressione e non viceversa. In tal senso, all’interno del setting formativo che gli health coach propongono, andrebbero previste altresì delle “sessioni di time management”.
Nel 1995 il Commonwealth Fund survey of physicians scoprì che i medici sotto i 50 anni avevano un tasso di insoddisfazione più grande (33%) rispetto a quelli più anziani di 50 (23%). Possiamo dire che anche l’età e quindi l’esperienza giocano un ruolo importante? Molto probabilmente sì. Di sicuro possiamo affermare che i livelli di soddisfazione del medico contribuiscono alla soddisfazione globale del paziente. C’è infatti una correlazione tra maggiore soddisfazione del medico e maggiore qualità delle cure (7), valutata sia in base al modo di comunicare, come ad esempio lo spiegare le fasi della cura ai pazienti, sia attraverso l’attenzione mostra- ta agli aspetti psicosociali della cura, sia alla quantità e alla frequenza delle prescrizioni. In conclusione possiamo dire che, una volta applicati, ove possibile, i fondamentali criteri dell’ascolto, dell’empatia, del questioning e dell’intelligenza emotiva, tutte le relazioni diventano più semplici sia per il medico che per il paziente. Non è il tempo che occorre, ma la capacità di impiegarlo al meglio. Capirsi, comprendere e farsi comprendere, chiarire che chi sta innanzi a un medico è lì perché ha un bisogno e intende dare fiducia al proprio interlocutore e chi sta dietro alla scrivania è lì perché dedica la propria vita professionale per aiutare il prossimo dal pun- to di vista sanitario è il viatico fondamentale per comporre al meglio delle proprie possibilità un buon atto medico.