Meeting Lab 2023 AIHC: ““Il tempo della cura” la Lectio Magistralis tenuta dal Prof. Giovanni Lapadula”
Il Prof. Lapadula, nella sua Lectio Magistralis ha portato importanti temi su cui riflettere per far sì che si possa tornare ad una cura che tenga conto anche del paziente inteso come essere umano inserito nel suo contesto sociale.
Sabato 28 Ottobre 2023, presso l’Hotel Montebello Splendid, in Via Garibaldi, 14 a Firenze, si è svolta la seconda edizione del Meeting-Lab dell’Associazione Italiana Health Coaching (AIHC), evento annuale a livello nazionale, con tema: “L’Health coaching per la promozione del benessere personale e professionale”.
La Lectio Magistralis dal titolo “Il tempo della cura” in programma, è stata tenuta del Prof. Giovanni Lapadula, Presidente del Gruppo Italiano di Studio sulla Early Arthritis (GISEA), Professore Ordinario di Reumatologia in quiescenza, già Direttore del Dipartimento Interdisciplinare di Medicina – Università degli Studi di Bari e della Sezione di Reumatologia dello stesso Dipartimento.
“Non ho il dovere di risolvere le difficoltà che creo. Le mie idee possono anche essere sempre un po’ sconnesse, o sembrare anche contraddirsi: conta solo che siano idee in cui i lettori possano trovare materia per pensare da sé”. Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781)
Questa appena riportata è la citazione con cui il Prof. Lapadula, ha voluto dare inizio alla sua lezione in quanto, nella sua intenzione, le sue parole non saranno da interpretare alla luce della filosofia ma come fonte di riflessione. La sua volontà, nata dalle tante esperienze fatte a contatto con varie tipologie di pazienti, dai carcerati alle persone comuni, nella sua esperienza di medico di famiglia durata 10 anni, è stata quella di comunicare la sua idea di una medicina sempre più vicina al paziente.
Per comprendere meglio le sue parole, chiediamo al Prof. Lapadula cosa intenda con l’idea di una medicina più vicina al paziente:
“La medicina clinica è, per sua natura una medicina DEDICATA al singolo paziente e perciò stesso ad esso più vicina al paziente, diversa dalla medicina ha la malattia come suo centro di interesse (la medicina dei trattati). Io credo che ogni medico, completato la sua istruzione accademica, confrontandosi con i problemi del singolo debba compiere una operazione “rivoluzionaria”: deve abbandonare l’approccio scientifico riduzionista che presuppone un estraniante statuto ontologico della malattia e riconoscere, invece, la complessità dell’essere umano che ha di fronte. Questi, nella sua essenza, non può essere identificato come una somma di eventi biologico-metabolici approfondita con i mezzi della scienza, ma come un essere che è ben più dell’insieme delle sue parti! L’essere umano, infatti, può esser visto come un sistema deterministico aperto, un sistema complesso che, come tale, può produrre una serie di eventi indipendenti dai singoli elementi che compongono il sistema, derivanti dall’interazione di tutte queste sue parti fra loro e dall’interazione di queste con il mondo esterno.
La mia, ovviamente, è una affermazione provocatoria, ispirata dalla teoria del Caos e dei sistemi complessi, fatta per orientare la nostra attenzione a quanto di diverso c’è nel mondo reale rispetto all’algido mondo delle scienze hard”.
Alla luce di queste sue parole, come dovrebbe cambiare l’approccio dei medici clinici alla malattia?
“Grazie al loro contatto con i malati e con la loro sofferenza, proprio i medici clinici hanno l’opportunità di scoprire l’esistenza di un mondo ben più vasto di quello circoscritto dalla scienza. Il concetto di malattia è un concetto antropologico strettamente connesso all’essere umano che considera la sua situazione di malessere come una malattia ma se noi cambiamo il nostro punto di vista, arriviamo a comprendere che c’è sempre anche un punto di vista finalistico.
Il concetto di malattia, nell’uomo, è strettamente collegato ad un ‘Io narrante’ e la narrazione della malattia rende possibile un processo di negoziazione di significati tra medico e paziente, attraverso il rimodellarsi delle rispettive interpretazioni dell’evento vissuto da entrambi.
Nel momento in cui il medico ha un contatto comunicativo con il suo paziente, nel raccogliere i dati sul decorso della malattia, può allargare lo sguardo al mondo della sofferenza rivelato dalla narrazione e accedere alla parte più intima della sua anima.
Il medico, quindi, tramite l’ascolto empatico del racconto del suo paziente, può comprendere non solo da dove nasce il malessere che ha portato alla malattia ma anche il suo modo di esprimersi ed il linguaggio che il paziente usa. Proprio quest’ultimo è importantissimo poiché, se il medico adegua il suo linguaggio al linguaggio del suo paziente, ottiene un rapporto sicuramente più empatico che dà l’opportunità di avere una comunicazione più vera e comprensibile. In questo modo, il paziente affetto da malattia cronica, riesce a percepire meglio e più a fondo ciò che il medico vuole comunicargli.
I medici sono a contatto con il dolore degli altri e l’esperienza acquisita sul campo forgia la capacità di controllo del rapporto empatico con il paziente; un rapporto che permette al medico di comprendere meglio il proprio paziente senza cadere in uno stato di totale identificazione con il suo dolore che lo travolgerebbe, togliendoli la lucidità necessaria ad ogni decisione terapeutica”.
Ora l’ultima domanda: perché è importante “Il Tempo della Cura”?
“Farò riferimento alla monumentale opera di Spengler, scritta un secolo fa, ma recentemente rivalutata in ambito filosofico/sociale. Noi viviamo un tempo di decadenza in cui abbiamo perso le idee forti della religione che abbiamo sostituito con il ricorso alla tecnica. I medici vengono formati a valutare i risultati degli esami diagnostici dimenticando il valore intrinseco del rapporto umano con il paziente. Se, però, sposando il ragionamento di Luigina Mortari, per cura vorremo intendere ‘il lavoro del vivere e dell’esistere’, dobbiamo prevedere che anche l’approccio clinico ad un paziente costituisce una naturale “apertura all’altro” (Emmanuel Levinas) che costituisce la linea guida di un “etos” professionale capace di tener conto anche di atti e comportamenti che non sviliscano l’arte medica a mera decisione tecnica. Occorre ricordare che si diventa umani negli occhi degli altri, attraverso lo sguardo e lo scambio di emozioni, interagendo con gli altri esseri umani in relazione con noi nel gruppo sociale. Il Tempo della Cura, quindi è anche il tempo che ci prendiamo per comprendere meglio le necessità profonde di chi ci sta di fronte. Questo tempo, non è molto diverso da quello che potremmo impiegare per un rapporto meno profondo ed empatico: non è la quantità che deve cambiare, ma è la qualità del tempo che dedichiamo al nostro paziente e questo sì, fa la differenza!”
Proprio all’inizio della sua lezione, il Prof. Lapadula cita un Autore, Lessing, e la storia dei tre anelli inserita in una delle sue opere. Si sa, i giornalisti sono curiosi, e preparando l’intervista che avete appena letto, incuriosita, sono andata a scoprire cosa dicesse la storia e ve la riporto di seguito:
LA PARABOLA DEI TRE ANELLI
“A Gerusalemme, al tempo delle crociate, il sultano Saladino, musulmano, chiede al saggio mercante ebreo Nathan quale sia la vera religione: l’ebraismo, il cristianesimo o l’islam? Nathan, invece di rispondergli, gli racconta una storia.
Molti anni or sono un uomo, in Oriente, possedeva un anello inestimabile, un caro dono. La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, ha un potere segreto: rende gradito a Dio e agli uomini chiunque la porti con fiducia.
Egli lasciò l’anello al suo figlio più amato; e lasciò scritto che a sua volta quel figlio lo lasciasse al suo figlio più amato; e che ogni volta il più amato dei figli, senza tenere conto della nascita ma soltanto per forza dell’anello, diventasse il capo e il signore del casato.
E l’anello così, di figlio in figlio, giunse alla fine a un padre di tre figli. Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente ed egli li amava tutti nello stesso modo. Così, con affettuosa debolezza, promise l’anello a tutti e tre. Andò avanti così finché poté. Ma, vicino alla morte, quel buon padre si trova in imbarazzo. Offendere così due figli, fiduciosi nella sua parola, lo rattrista.
Che cosa deve fare? Egli chiama in segreto un gioielliere, e gli ordina due anelli in tutto uguali al suo; e con lui si raccomanda che non risparmi né soldi né fatica perché siano perfettamente uguali. Quando glieli porta, nemmeno il padre è in grado di distinguere l’anello vero. Felice, chiama i figli uno per uno, impartisce a tutti e tre la sua benedizione, a tutti e tre dona l’anello e muore.
Morto il padre, ogni figlio si fa avanti con il suo anello e pretende di essere il signore del casato. Si litiga, si indaga, si accusa. Invano. Impossibile provare quale sia l’anello vero, quasi come per noi provare quale sia la vera fede. I figli si accusarono in giudizio. E ciascuno giurò al giudice di avere ricevuto l’anello dalla mano del padre (ed era vero), e molto tempo prima la promessa dei privilegi concessi dall’anello (ed era vero anche questo). Il padre, ognuno se ne diceva certo, non poteva averlo ingannato; prima di sospettare questo, diceva, di un padre tanto buono, non poteva che accusare dell’inganno i suoi fratelli, di cui pure era sempre stato pronto a pensare tutto il bene; e si diceva sicuro di scoprire i traditori e pronto a vendicarsi.
Il giudice disse: Portate subito qui vostro padre o vi caccio via. Pensate che stia qui a risolvere enigmi? O volete restare finché l’anello vero parlerà? Ma… aspettate! Voi dite che l’anello vero ha il magico potere di rendere amati, graditi a Dio e agli uomini. Sia questo a decidere! Gli anelli falsi non potranno. Su, ditemi: chi di voi è il più amato dagli altri due? Avanti! Voi tacete? Ciascuno di voi ama solo se stesso? Allora tutti e tre siete truffatori truffati! I vostri anelli sono falsi tutti e tre. Probabilmente l’anello vero si perse e vostro padre ne fece fare altri tre per sostituirlo.
Il mio consiglio è questo: accettate le cose come stanno. Ognuno ebbe l’anello da suo padre: ognuno sia sicuro che esso è autentico. Vostro padre, forse, non era più disposto a tollerare ancora in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre. Non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno. Orsù! Sforzatevi di imitare il suo amore senza pregiudizi.
Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno il potere della pietra nel suo anello, con la dolcezza, la pazienza, la carità e con profonda devozione a Dio. Quando il potere degli anelli apparirà nei nipoti, e nei nipoti dei nipoti, io li invito a tornare in tribunale, fra mille e mille anni. Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me e parlerà. Andate! Così disse quel giudice modesto”.
Gotthold Ephraim Lessing, Nathan il Saggio, Garzanti, Milano 2002, pp. 155-163, adattamento
Alla fine di questa lettura, vi sarete resi conto anche Voi che nella Parabola dei tre anelli, il padre rappresenta Dio ed i figli sono le tre religioni monoteistiche che Dio ama in egual misura ma Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo sono sempre in lotta tra loro in quanto, ognuna di loro, pretende di essere l’unica depositaria della verità ed ha dimenticato che solo Dio è detentore della religione originaria e di un ideale ormai smarrito. Anche il giudice rievoca l’immagine di Dio, ed invita i fratelli alla comprensione e ad essere tolleranti; essi, dovrebbero preoccuparsi di educare i loro figli insegnando loro ad essere gentili, caritatevoli e pazienti dimostrando e praticando in tal modo la loro devozione a Dio.
Alla fine di ogni intervista ringraziamo il Relatore per il lavoro svolto e la sollecitudine con cui ha voluto trattare l’argomento scelto ma, in questo caso, oltre alla dovuta riconoscenza per una Lectio Magistralis che ha instillato in noi molti semi per importanti riflessioni, siamo grati al Prof. Lapadula per aver voluto portare un messaggio di pace e di tolleranza nel triste momento che stiamo vivendo a causa della guerra in corso proprio nel luogo in cui le tre Religioni monoteiste dovrebbero mettere in atto i consigli del giudice della parabola.
Nicoletta Viali – Ufficio Stampa AIHC